Vi siete accorti che da che Achille Lauro è diventato popolare, Anna Oxa è sparita dalla circolazione? Nessuna intenzione di ipotizzare un esperimento di mutazione genetica e tantomeno di aprire il gioco delle differenze (si pensi anche solo alla voce, che ad Anna non manca).
Certo è che fra i due esiste una matrice comune e che Lauro deve sicuramente alla Oxa il fatto di essersi potuto permettere alcune provocazioni sul palco dell’Ariston: Anna iniziò la sua scalata fingendosi punk vestita da minimè di Ivan Cattaneo, non si risparmiò tutine fascianti ed ombelichi scoperti, abbondò di gel fino a prodursi in una meravigliosa performance, quella legata a ‘Processo a me stessa’ talmente avanti che nemmeno la critica musicale fu in grado di capire. Il tratto più evidente della dimensione artistica di Anna e di Achille (a parte la voce per lei, ma quella è un’altra storia) consiste proprio nel fatto che entrambi non si limitano a fare musica ed investono molte energie nella cura di quello che in Italia siamo abituati a considerare solo come un ‘contorno’ e che è dato dall’insieme di immagine, abbigliamento, movimento. Una dimensione ‘lirica’ nel senso di modalità di presentare e porre la musica. Una dimensione che esige personalità: credo che se io dovessi presentarmi su un palco facendo le stesse cose, nello stesso modo in cui le fa Lauro sarei preso a uova in faccia. Il dramma è che la personalità non è necessariamente una cosa che hai: è una cosa che in parte hai, in parte ti viene riconosciuta come valore da chi ti guarda. Il bello è che finché il consenso c’è puoi permetterti anche di steccare e dimenticare le parole (e qui pensando a Sanremo potremmo scrivere un lungo elenco di nomi). Il rischio è che quando il consenso per qualche strana ragione viene meno puoi proporre le cose più belle del mondo ma nessuno ti sta ad ascoltare. Il brutto è che a furia di fornire ‘prestazioni’ la gente da te si aspetta essenzialmente quelle, di essere stupita, di essere provocata e non ascolta quello che proponi.
Che c’entrano queste riflessioni con 1990? Achille Lauro è ancora nella magica fase in cui la favola dei trasformismo e le prestazioni d’immagine permettono di non fare caso al suo cantare strascicato, impastando le parole, affidando ad altri il compito di sollevare le sorti vocali dei pezzi (e come s’usa oggi le collaborazioni anche in 1990 sono frequenti). L’importante è che ci sia il look (e come direbbero i Roxette ‘She’s got the look’), la provocazione, la mezza parolaccia o la frase fuori di testa. E in 1990 tutto questo lo troviamo. La fortuna di Achille, in una fase importante di cambio di produttore come quella segnata da questo disco, è che proponendo versioni riviste e molto, molto, molto corrette di brani anni ’90 non deve sforzarsi più di tanto nella ricerca di spessori musicali, perché in quel periodo quel che contava era la tiritera da tormentone da infilare nel ritornello. Considerata l’impostazione monotematica dell’album non possiamo nemmeno prendercela con lui per il suo aperto e commerciale essersi diretto verso la dance di fine millennio, quella che, con le debite eccezioni, a me non piace per nulla.
So che questa recensione non farà felici i fans di Achille e farà molto arrabbiare gli ascoltatori di Radio Voce Camuna, che da me si aspettavano a riguardo scene da basso macello e spargimento di sangue. Nel giudizio mi ha fregato il fatto di aver ascoltato il disco in versione deluxe e di essermi sforzato, in alcuni passaggi anche attraverso un ascolto quasi logopedico, di cogliere i contenuti dei testi ed in particolare dei ‘bonus’ della versione di prestigio, costituiti da brevi tracce ‘recitate’ (Bianca Bertelli perdonami: lo so che la recitazione è un’altra cosa, ma lui non si limita a leggerle…) in cui Achille lascia parlare Lauro (che è il nome di battesimo del De Marinis). Non so quanto di autobiografico ci sia in queste cose, quanto i racconti siano frammenti di diario o memorie inventate. So solo che in filigrana leggi le medesime inquietudini dei ‘Ragazzi di vita’ di Pasolini, la fatica della ricerca di un equilibrio in un contesto di certezze che non ci sono, di non valori venduti come valori, la capacità, rara, di immaginare il punto di vista degli altri. Se Achille è l’invenzione che ha permesso a Lauro di dire “ho sbagliato (…) io non voglio finire così, e qualcuno di lassù lo sentì”, ben venga anche Achille. Con l’augurio di crescere, di arrivare al quel ‘Processo a me stessa’ che magari rappresenterà il tonfo di una carriera ma che saprà dimostrare che non sei solo un ammasso di perline e lustrini.
Achille Lauro, 1990, CD