Breno, venerdì 24 maggio 2024. Partiamo dai numeri: 5 millenni di storie l’una sovrapposta all’altra, 700 anni di culto legato agli antenati, circa 900 perline di colore chiaro, 6 periodi temporali indagati dagli archeologi. Il primo di questi, legato all’Età del Rame, è il focus della pubblicazione “Ai piedi del Castello. 5000 anni di storie a Breno”, a cura di Cristina Longhi e Serena Solano, della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Bergamo e Brescia. Il libro rappresenta un punto di restituzione intermedio delle scoperte fatte (destinate a proseguire) ed è dedicato a Sandro Farisoglio, sotto la cui amministrazione era iniziata la campagna di scavo:

Breve estratto dalle interviste a Cristina Longhi e Serena Solano

Cristina Longhi, Funzionario archeologo della Soprintendenza, racconta gli esiti di questi 5 anni di lavoro volti ad analizzare l’area di Piazza Generale Ronchi, a Breno, dove la decisione di mettere mano alla pavimentazione costruendo il parcheggio interrato aveva posto in essere la necessità di studiare la possibile presenza di reperti archeologici. Una presenza presto confermata e in parte già esposta al pubblico durante una prima serata di restituzione, a giugno 2021. Una visione integrata ora con nuovi dati e con questo volume, realizzato dalla Soprintendenza con il supporto del Comune di Breno e il contributo della Comunità Montana di Valle Camonica.

Breno si conferma essere stato, con fasi di sviluppo alterne, un importante punto di riferimento per la media Valle Camonica. Com’è noto, la zona dove si trova il castello è già stata oggetto di studio quanto alla significativa presenza di ritrovamenti archeologici. È quindi l’area dell’attuale piazza ad essere al centro delle recenti indagini, che mettono in relazione qualche frammento in più, prezioso per ricostruirne la funzione attraverso i millenni. Un luogo che inizia ad essere vissuto in chiave cultuale-funeraria con l’Età del Rame (3500-2600 a.C.).

È in questo periodo che la comunità locale mette mano ad un deposito di detriti caduti dal colle soprastante, impiegandoli nella costruzione prima di un tumulo e, successivamente, di una piattaforma e due camere. Un’area che è emersa come significativa non solo per il carattere delle sepolture rinvenute, ma per la funzione che queste si ritiene dovessero avere. Nel tumolo sono stati trovati i resti di una donna tra i 15 e i 19 anni; alta un metro e cinquanta, godeva di buona salute ed è stata sepolta con un interessante corredo, nel quale spicca la presenza di circa 900 perline accompagnate da denti animali, di piccoli strumenti in selce utilizzati per tagliare e forare, di una lesina di rame (materiale che in questo periodo denota una posizione sociale di rilievo) e di un vaso (forse per offerte). Con un piccolo sforzo d’immaginazione possiamo figurarci un copricapo, oppure una serie di collane, o magari anche un sudario decorato con quella che noi oggi definiremmo bigiotteria e che, dato il processo di lavorazione i cui materiali sono stati sottoposti, getta luce anche sullo stadio delle tecniche metallurgiche note al tempo.

La piattaforma, la cui funzione è ancora ignota, era probabilmente impiegata per attività associate al culto e prontamente e ripetutamente ripulita. Ma ciò che desta ulteriore interesse è il contenuto delle due camere. Se una era probabilmente un ricovero per gli oggetti cultuali – è stato rinvenuto anche un acciarino e si sa che il fuoco veniva utilizzato nei cerimoniali – nell’altra venivano deposte e ricomposte le salme. Quello che a noi oggi può sembrare un rituale quasi macabro, risultava invece essere un’importante pratica.

Essa si basava su una concezione all’epoca diffusa. Concezione che possiamo approfondire anche grazie a recenti studi di natura antropologica, come sottolineato da Marco Baioni, Direttore del Museo archeologico della Valle Sabbia di Gavardo. Il defunto era chiamato a tornare alla collettività. Per farlo, doveva compiere un lungo cammino, spogliandosi progressivamente della propria identità. In questo, era accompagnato da delle figure che, fuor di metafora, ne manipolavano i resti dopo la decomposizione, trattandone le ossa e disponendole nuovamente in sepolture collettive. I resti rinvenuti in questa camera funeraria a Breno sono stati disposti di modo da ricostruire la struttura ossea di un corpo rannicchiato. Ma – come le analisi effettuate hanno messo in luce – appartengono a ben tre individui diversi: una donna, un ragazzo e un bambino.  

C’è però un altro elemento. La distanza temporale tra l’inumazione della giovane donna conservata nel tumulo e la sepoltura ricomposta nella camera. Se la prima risale infatti al 3.100 a.C., la seconda si aggira attorno al 2.500 a.C. Un dato che ci permette di ipotizzare come questo luogo di sepoltura e culto, posto ai piedi del colle su cui ora sorge il castello, sia stato frequentato per circa 700 anni. Un periodo molto lungo, nel quale l’area ha svolto l’importante funzione di punto di riferimento per la comunità del tempo, complice la presenza di un landmark, un aspetto del paesaggio facilmente distinguibile come il colle.

Ovviamente quanto riportato sopra rappresenta solo una parte di ciò che è emerso dagli scavi svoltisi tra il 2018 e il 2019. Si sono infatti trovati diversi riferimenti interessanti per comprendere l’evoluzione dell’area. Presenza di capanne, resti di focolari, ulteriori sepolture (alcune di bovini, presumibilmente di epoca medioevale), condotte per arginare le ripetute esondazioni di un corso d’acqua sono solo alcuni degli elementi che ci permettono di proseguire il racconto attraverso i millenni. Un racconto che è in attesa di ulteriori risposte agli interrogativi insorti sull’area che dalla metà del XIX secolo è il cuore pulsante di Breno. Ma anche per comprendere meglio alcuni aspetti di quel passato legato ai culti dell’Età del Rame.

Che legame c’era tra i tre individui ri-sepolti insieme? Di cosa si occupava la giovane donna inumata da sola e perché era così importante? Come mai le perline rinvenute nelle sepolture ai piedi del castello di Breno ricordano fortemente la collana trovata nel sito di Pat, Ossimo? Il lavoro da fare non manca e si spera quindi di poterlo approfondire anche in vista della futura collocazione dei resti. Durante la presentazione è stato infatti reso noto che quanto rinvenuto nella campagna di scavo in Piazza Generale Ronchi a Breno troverà casa presso il MUPRE, Museo Nazionale della Preistoria, a Capo di Ponte.

Nel corso della serata abbiamo raccolto delle interviste. I contributi audio di Cristina Longhi, Serena Solano e Marco Baioni si potranno ascoltare durante la puntata di VocePRESENTE, in onda venerdì 7 giugno alle ore 10:10 sulle frequenze di Radio Voce Camuna. In seguito, il podcast si potrà riascoltare dalla pagina della trasmissione.

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