Stefano Barotti – Il grande temporale

Stefano Barotti – Il grande temporale

Stefano Barotti è nato e vive a Massa, bagna i piedi e conta le onde a Forte dei Marmi. A 45 anni ha dato alle stampe il quarto disco in 17 anni di carriera: “Il grande temporale” è un lavoro prezioso, completo, emozionante.

Con il precedente “Pensieri Verticali”, del 2015, aveva raggiunto la maturità artistica e scritto meravigliose canzoni che sono state tranquillamente ignorate dalle istituzioni musicali di potere.


In questo 2020 torna ad emozionarci con un album ancora più complesso e vario, che lo conferma grande musicista, con un suo stile ed una sua personalità.

“Il grande temporale”, ci porta nel progressive anni settanta.

“Painter Loser” con un ritmo reggae che ci ricorda Bob Marley, è un brano autobiografico: visto che di sola musica non si vive, Barotti oltre a comporre continua a fare l’imbianchino.

“Enzo”, fantastica canzone omaggio al mai dimenticato Enzo Jannacci; “Spatola e spugna”, dove parla di calcio con poesia ma anche di lavoro precario.

“Tra cielo e prato”, invece, ci ricorda del bambino che ognuno di noi si porta dentro di sé e che non dovremmo mai tradire, mentre “Aleppo” ci parla di una madre che protegge il suo piccolo come può dalla guerra.

“Stanotte ho fatto un sogno” è un brano dolcissimo, narra la mancanza di una persona: alla chitarra troviamo Roberto Ortolan, purtroppo scomparso nell’aprile 2020. Questa è stata l’ultima canzone che ha registrato.

Proseguendo nell’ascolto dell’album troviamo anche “Mi ha telefonato Tom Waits”, omaggio ad uno dei massimi cantautori del novecento; “Quando racconterò”, nata durante un viaggio a Berlino e “Marta”, che affronta l’argomento del femminicidio.

Infine, “Tutto nuovo”, il racconto di quando nasce un bambino e di quanto la vita cambi e tutto appaia nuovo.

Un album da avere (come tutti quelli di Stefano Barotti), da ascoltare e riascoltare sempre. Il cantautore toscano non stanca mai. La sua arte, la sua poesia ci accompagnano per tutta la vita!!!

L’album, distribuito da La Stanza Nascosta Records di Salvatore Papotto, è disponibile anche in formato fisico, sia nella versione CD che in vinile. Registrato tra l’Italia e gli Stati Uniti, “Il grande temporale” è estremamente ricco dal punto di vista della produzione e delle sonorità e annovera un cast musicale d’eccezione. 

Tra gli ospiti speciali (dagli Stati Uniti e non solo) – racconta il cantautore – Joe e Marc Pisapia, Jono Manson, Mark Clark e John Egenes. Alla produzione artistica hanno partecipato Fabrizio Sisti (prezioso il suo contributo alle tastiere, al piano, ai sintetizzatori ed all’organo Hammond), Alessio Bertelli, ingegnere del suono, e il batterista Vladimiro Carboni.

Mi piace ricordare anche Marco Giongrandi (chitarra elettrica e banjo), Max De Bernardi (chitarre) e Paolo Ercoli (dobro e mandolino). Due le voci femminili, la bravissima Veronica Sbergia e l’esordiente Laura Bassani. Gli arrangiamenti e la direzione degli archi sono stati curati da Roberto Martinelli.

Hanno preso parte al lavoro anche Roberto Ortolan (recentemente scomparso, N.d. R.), alla voce e alle chitarre, Nico Pistolesi (piano), Davide L’Abbate (chitarre) e Vittorio Alinari (sax soprano e clarinetto basso).  Le linee di basso sono di James Haggerty e Luca Silvestri; al contrabbasso Pietro Martinelli e l’amico Matteo Giannetti. |

Lucio Corsi – Cosa faremo da grandi

Lucio Corsi – Cosa faremo da grandi

Forse non lo conosceranno in tanti, ma Lucio Corsi merita di essere ascoltato: è un ragazzo toscano di 26 anni giunto con questo “Cosa faremo da grandi” alla sua terza prova, dopo “Altalena boy/Vetulonia Dakar” (2015) e “Bestiario musicale” (2017).

Nato a Grosseto nel 1993, gestisce un ristorante nella vicina Macchiascadona, la madre è pittrice, suo il dipinto in copertina. Lucio Corsi si appassiona alla musica guardando il film del 1980 “The Blues Brothers” inizia poi a esibirsi nei locali della propria città.

Ispirandosi ai Genesis di Gabriel, compone brani strumentali per poi dedicarsi al cantautorato e finalmente nel 2014 incide il suo primo lavoro.

Ascoltare le sue canzoni è immergersi in un mondo fiabesco e poetico, il modo in cui si esprime è originale, la sua voce autentica, un album dedicato ai sognatori: nulla è impossibile!

Oggi sul sito di Vogue Italia si parla del progetto e del mediometraggio girato in Maremma insieme a Tommaso Ottomano….

Pubblicato da Lucio Corsi su Giovedì 9 gennaio 2020

Alla produzione Francesco Bianconi dei Baustelle. Vi dirò questo suo album mi ha resa felice, felice che ci siano giovani cantautori così, come Lucio Corsi.

Buonissimo ascolto!!!

Lucia Miller-Lampi sulla pianura

Lucia Miller-Lampi sulla pianura

Disco d’esordio di Lucia Miller un album di canzoni popolari in ambito folk-rock.

Bisogna dirlo, la Miller gode della collaborazione di uno dei nostri migliori artisti suo marito Massimo Bubola, le canzoni infatti sono state scritte, arrangiate, prodotte dal cantautore veronese per essere interpretate con la delicatezza femminile. Lucia Miller le canta con grande passione, eleganza e personalità , liriche di spessore con riferimenti alla storia, il suono è affidato a bravi musicisti  (Eccher band) come Enrico Mantovani (chitarre elettriche ed acustiche, mandolino, pedal steel, banjo, cori) e Alessandro Formenti (basso elettrico ed acustico, contrabbasso), oltre a Virginio Bellingardo (batteria e percussioni), Thomas Sinigaglia (pianoforte, organo hammond e fisarmonica), Mauro Ottolini (tromba, trombone, flicorno, tromba bassa, tin whistle) e Maria Alberti (cori).

Tutto inizia quando Lucia incontra Massimo Bubola e nasce una collaborazione artistica, la Miller entra a far parte della sua Eccher Band come voce femminile, un sodalizio che dura ormai da tanti anni e che giunge a questo disco dedicato alle figure femminili che nella storia e nella letteratura sono state esempi significativi nel lungo percorso dell’emancipazione e dei diritti delle donne.

“Lampi nella pianura”, un modo per guardare al passato e trovare il presente.

I ’90 di Achille

I ’90 di Achille

Vi siete accorti che da che Achille Lauro è diventato popolare, Anna Oxa è sparita dalla circolazione? Nessuna intenzione di ipotizzare un esperimento di mutazione genetica e tantomeno di aprire il gioco delle differenze (si pensi anche solo alla voce, che ad Anna non manca).

Certo è che fra i due esiste una matrice comune e che Lauro deve sicuramente alla Oxa il fatto di essersi potuto permettere alcune provocazioni sul palco dell’Ariston: Anna iniziò la sua scalata fingendosi punk vestita da minimè di Ivan Cattaneo, non si risparmiò tutine fascianti ed ombelichi scoperti, abbondò di gel fino a prodursi in una meravigliosa performance, quella legata a ‘Processo a me stessa’ talmente avanti che nemmeno la critica musicale fu in grado di capire. Il tratto più evidente della dimensione artistica di Anna e di Achille (a parte la voce per lei, ma quella è un’altra storia) consiste proprio nel fatto che entrambi non si limitano a fare musica ed investono molte energie nella cura di quello che in Italia siamo abituati a considerare solo come un ‘contorno’ e che è dato dall’insieme di immagine, abbigliamento, movimento. Una dimensione ‘lirica’ nel senso di modalità di presentare e porre la musica. Una dimensione che esige personalità: credo che se io dovessi presentarmi su un palco facendo le stesse cose, nello stesso modo in cui le fa Lauro sarei preso a uova in faccia. Il dramma è che la personalità non è necessariamente una cosa che hai: è una cosa che in parte hai, in parte ti viene riconosciuta come valore da chi ti guarda. Il bello è che finché il consenso c’è puoi permetterti anche di steccare e dimenticare le parole (e qui pensando a Sanremo potremmo scrivere un lungo elenco di nomi). Il rischio è che quando il consenso per qualche strana ragione viene meno puoi proporre le cose più belle del mondo ma nessuno ti sta ad ascoltare. Il brutto è che a furia di fornire ‘prestazioni’ la gente da te si aspetta essenzialmente quelle, di essere stupita, di essere provocata e non ascolta quello che proponi.

Che c’entrano queste riflessioni con 1990? Achille Lauro è ancora nella magica fase in cui la favola dei trasformismo e le prestazioni d’immagine permettono di non fare caso al suo cantare strascicato, impastando le parole, affidando ad altri il compito di sollevare le sorti vocali dei pezzi (e come s’usa oggi le collaborazioni anche in 1990 sono frequenti). L’importante è che ci sia il look (e come direbbero i Roxette ‘She’s got the look’), la provocazione, la mezza parolaccia o la frase fuori di testa. E in 1990 tutto questo lo troviamo. La fortuna di Achille, in una fase importante di cambio di produttore come quella segnata da questo disco, è che proponendo versioni riviste e molto, molto, molto corrette di brani anni ’90 non deve sforzarsi più di tanto nella ricerca di spessori musicali, perché in quel periodo quel che contava era la tiritera da tormentone da infilare nel ritornello. Considerata l’impostazione monotematica dell’album non possiamo nemmeno prendercela con lui per il suo aperto e commerciale essersi diretto verso la dance di fine millennio, quella che, con le debite eccezioni, a me non piace per nulla.

So che questa recensione non farà felici i fans di Achille e farà molto arrabbiare gli ascoltatori di Radio Voce Camuna, che da me si aspettavano a riguardo scene da basso macello e spargimento di sangue. Nel giudizio mi ha fregato il fatto di aver ascoltato il disco in versione deluxe e di essermi sforzato, in alcuni passaggi anche attraverso un ascolto quasi logopedico, di cogliere i contenuti dei testi ed in particolare dei ‘bonus’ della versione di prestigio, costituiti da brevi tracce ‘recitate’ (Bianca Bertelli perdonami: lo so che la recitazione è un’altra cosa, ma lui non si limita a leggerle…) in cui Achille lascia parlare Lauro (che è il nome di battesimo del De Marinis). Non so quanto di autobiografico ci sia in queste cose, quanto i racconti siano frammenti di diario o memorie inventate. So solo che in filigrana leggi le medesime inquietudini dei ‘Ragazzi di vita’ di Pasolini, la fatica della ricerca di un equilibrio in un contesto di certezze che non ci sono, di non valori venduti come valori, la capacità, rara, di immaginare il punto di vista degli altri. Se Achille è l’invenzione che ha permesso a Lauro di dire “ho sbagliato (…) io non voglio finire così, e qualcuno di lassù lo sentì”, ben venga anche Achille. Con l’augurio di crescere, di arrivare al quel ‘Processo a me stessa’ che magari rappresenterà il tonfo di una carriera ma che saprà dimostrare che non sei solo un ammasso di perline e lustrini.

Achille Lauro, 1990, CD

I Luf – Pihinì Tornando al monte, recensione

I Luf – Pihinì Tornando al monte, recensione

Vent’anni di musica che I Luf festeggiano con un album di inediti, “Pihinì-Tornando al monte”.

Canzoni inedite cariche come sempre di forza espressiva, di grande folk , un disco intenso che ci porta alla nostra amata montagna e alle nostre radici.

I Luf sono: Dario Canossi (chitarra e voce), Sergio Pontoriero (banjo, mandolino e voce), Cesare Comito (chitarra e voce), Lorenzo Marra (fisarmonica, voce), Pier Zuin (cornamuse e flauti), Samuele Redaelli (batteria), Alberto Freddi (violino e voce), Alessandro Rigamonti (basso e contrabbasso) .

Nel caso di Pihinì la musica si abbraccia alla letteratura con alcuni autori di spessore, Paolo Cognetti ha scritto il testo della canzone ” Ragazzo selvatico”, Max Solinas quello di “Il lupo e l’equilibrista”, ” Non ti farò aspettare ” è stata ispirata dall’omonimo libro di Nives Meroi, ” La leggerezza della crisalide” dal libro di Erri De Luca ” Il peso della farfalla”, ” Il canto delle manere é tratto dal libro di Mauro Corona.

02/02/2020IL COUNTDOWN È FINITO!DOMANI esce "PIHINÍ – Tornando al Monte", il nuovo disco dei Luf. Disponibile online e nei migliori negozi di musica, oltre che ai nostri concerti.Vi aspettiamo!

Pubblicato da I Luf su Sabato 1 febbraio 2020

Insomma che dire… Un disco ancora una volta che ci fa riflettere, sognare e ballare. Il solito disco coinvolgente.. del resto stiamo parlando di lupi, i nostri Luf!

Buon ascolto!

Allison Moorer – Blood, recensione

Allison Moorer – Blood, recensione

Allison Moorer, sorella di Shelby Lynne, ex moglie di Steve Earle, esce in questo 2019 con l’album “Blood” accompagnato da un libro con lo stesso titolo, riflessione sulla vita, sugli abusi. Fa luce sulla vita famigliare dell’artista dell’Alabama e sulla tragedia da lei vissuta che l’ha segnata  indelebilmente: l’omicidio della madre da parte del padre, seguito dal suicidio del padre.

L’album giunge a quattro anni dal precedente “Down to believing” e a due da ”Not dark yet” inciso con la sorella. Lavoro autobiografico, intenso, coraggioso, tanti sono stati gli anni prima che Allison sia riuscita a parlare del suo vissuto, la sofferenza rende i suoi brani vibranti , scritti con sincerità e grazia.

Tra i dieci brani, otto sono nuovi di zecca mentre due erano già apparsi in versione diversa in album precedenti , dei quali uno, “Cold Cold Earth, sul suo secondo lavoro “The Hardest Part” del 2000 e “ Blood” sull’album ”Down to believing” poi c’è  una “chicca”, la canzone “Heal” scritta con la grande Mary Gauthier.

Il brano è stato composto da Allison Moorer e Mary Gauthier